«Testo e Senso», Cfp 2024
Sorto negli Stati Uniti intorno al 2010 come movimento di lotta contro le discriminazioni razziali e l’ingiustizia sociale, il “wokismo” si è diffuso nelle università nord-americane e, poi, negli atenei europei, attraverso la convergenza con le teorie di genere, il razzialismo, l’intersezionalismo, come una contestazione della scienza, del sapere razionale, della storia, della tradizione umanistica e del pensiero universalista, considerati strumenti connaturati e funzionali ad una impostazione del pensiero, del linguaggio, dello studio che veicola strutture implicitamente atte a confermare e perpetuare un sistema di dominazione patriarcale, bianca, maschile e occidentale.
Da movimento di risveglio e contestazione sociale e politico, il “wokismo” è diventato una atmosfera culturale che permea il dibattito accademico e si costituisce non solo come una intelaiatura di nuovi riferimenti teorici cui occorre guardare allorquando si attende allo studio della storia, della filosofia, della società, ma come un nuovo modo di concepire il fare culturale e artistico e i modi della riflessione e dello studio. Per la comprensione del fenomeno, storicamente, si può risalire alla diffusione del “politically correct”, già rilevato e messo in questione tra gli anni Ottanta e Novanta nei lavori, tra gli altri, di Robert Hughes e Allan Bloom[1], passando per l’affermazione della cosiddetta “cancel culture” degli anni Duemila, di cui alcuni esiti sono diventati di pubblico dominio, dalle operazioni di messa in discussione dei fondamenti e dei metodi di discipline “dure” (Matematica, Biologia), alla cancellazione di corsi di studio (come nel caso del corso di Western Civilization), alle polemiche per i corsi di Storia della filosofia, dominati da figure maschili e caucasiche, fino all’ostracismo subìto da alcuni docenti, alla messa al bando di autori e opere, alla loro riscrittura secondo nuovi canoni linguisticamente corretti (come nel caso di Huckleberry Finn).
Per quanto molte tendenze nate da questo clima siano facilmente riconoscibili (dai “trigger warning” che precedono i film, alle nuove regole che le produzioni hollywoodiane devono seguire, in ottemperanza a principi di rappresentanza razziale, fino all’imporsi della figura del “sensitive reader” nelle case editrici), rimangono significativamente trascurati il rapporto problematico che il “wokismo” intrattiene con il sistema di produzione e potere capitalista, il rapporto che esso ha con il postmoderno, come cornice ideologica dello stesso orizzonte capitalista all’interno del cui perimetro il “wokismo” nasce e si afferma, infine il problema di un giudizio estetico sui caratteri, i limiti e i problemi che contraddistinguono i risultati di questa cultura. Se dunque “il postmoderno deve essere visto come la produzione di persone postmoderne capaci di adattarsi a un preciso e peculiare mondo socioeconomico”[2], non si può non considerare come funzionale al sistema di produzione capitalistico una impostazione culturale i cui sostenitori “mettono in questione la storia stessa realiter e sul piano concettuale, quando addirittura non si apprestano a liquidarla”[3], rischiando di pervenire, attraverso la pulsione allo “smaltimento del passato”[4], alla liquidazione del soggetto, al trionfo di un sistema culturale che si esplica come “industria della coscienza”[5] voluta dal potere tecnico-politico, che promuove una società disgregata, un individuo atomizzato, una cultura azzerata nei suoi connotati particolari. A conclusione di un processo regressivo, volto ad imporre nuove forme di censura, di puritanesimo, di “caccia alle streghe”, secondo nuovi criteri politici ed estetici, sembra emergere, come paradossale esito di un rito di purificazione culturale, una cultura della censura e del dominio del conforme, contraria con il proprio irrazionalismo e la propria chiusura identitaria alle idee di progresso e di emancipazione, in sostanza ai valori democratici di libertà del pensiero su cui sono state fondate le università.
In questo senso, è importante sia cercare di spiegare le origini di tale fenomeno, analizzandone i legami con il decostruzionismo e la French Theory, il rapporto con la diffusione dei Social networks, le operazioni di cyber-disinformazione, la reazione contrapposta del cospirazionismo, sia indagarlo in relazione al problema della percezione, agli sviluppi di una nuova antropologia, e all’affermazione di una cultura cui “sono cari i gemelli del martirio e della redenzione”[6], legata alla figura della vittima e al suo statuto, centrale nel sistema mediatico e psicologico contemporaneo[7].
Per il numero 27-2024 di «Testo e Senso» invita perciò a riflettere sul “wokismo” in senso ampio e problematico, guardando sia alla dimensione tecnica, teorica e politica del fenomeno, e le sue conseguenze in sede culturale, sia alla dimensione estetica, interrogandosi sulle origini e le implicazioni del movimento, la sua ricezione nella critica politica e in accademia, gli àmbiti presso cui si è maggiormente affermato, le modalità che prevede e i limiti, i rischi che gli sono correlati. Ma, anche, si tratterà di descrivere sia quegli elementi che hanno condotto il “wokismo” ad affermarsi – e dunque anche le esigenze psicologiche, sociali, politiche, in una parola le aspettative cui il movimento è andato incontro e per cui è sorto – sia di descrivere le azioni di resistenza intellettuale, politica, giuridica, istituzionale e civile che si fanno strada oltre Atlantico per salvaguardare i fondamenti di una civiltà multiculturale universalistica e tollerante.
In questo quadro, sono accolti con particolare interesse, accanto a contributi di natura critica e epistemologica, storica, teorica e dei cultural studies, contributi di natura singolativa, analisi case-study su quelle opere – letterarie, cinematografiche, televisive, Internet – che si configurano come un esito in sede estetica dell’assunzione dei principi del “wokismo”, o che esprimono, con i loro contenuti, le linee culturali del “wokismo”. Specialmente negli ultimi anni, infatti, accanto ad una tendenza normativo-prescrittiva di ispirazione politica, cui il sistema culturale si è conformato, vi è stata una messe di opere (dalle serie giovanili prodotte da Netflix agli ultimi romanzi della narrativa young-adult, fino a molti film premiati che si interrogano sulla cultura “woke”, e la inseriscono anche nel vasto campo della cultura “queer”) che hanno incrociato e intercettato il “sentimento woke”, cercando di dar forma a questo fenomeno attraverso prodotti originali o controversi, didascalici o temerari, capaci di bilanciare esigenze ideologiche e tensioni stilistiche, funzione estetica ed ideologia; opere su cui oggi manca ancora una approfondita ricognizione, uno studio culturale, e una riflessione estetica articolate.
A titolo puramente indicativo e naturalmente non esaustivo, si riporta di séguito un elenco di prospettive di ricerca di tipo tematico, storico-culturale, socio-politico, estetico, che potrebbero offrirsi come spunto per gli studiosi interessati a presentare un contributo sull’argomento:
Note:
[1] Robert Hughes, La cultura del piagnisteo (1993), Milano, Adelphi, 1994; Allan Bloom, La chiusura della mente americana (1987), Torino, Lindau, 2009. [2] Fredric Jameson, Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo (1989), Roma, Fazi, 2007, p. XV. [3] Leo Löwenthal, I roghi dei libri (1984), Genova, il melangolo, 1991, p. 27. [4] Ibid. [5] Hans Magnus Enzensberger, Questioni di dettaglio (1962), Milano, Feltrinelli, 1965, p. 7. [6] Robert Hughes, op. cit., p. 27. [7] Si fa rif. alle riflessioni in Daniele Giglioli, Critica della vittima, Roma, nottetempo, 2016.
I contributi, per un massimo di 35.000 battute, note comprese, e comprensivi di titolo e abstract in italiano e inglese o francese, devono essere inviati alla Redazione entro il 31 luglio 2024, seguendo le norme e la procedura pubblicate su questo sito.
Il numero 27-2024 sarà pubblicato nel mese di dicembre.